Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Che cosa significa? L’articolo vuole promuovere la collaborazione tra imprenditori e lavoratori. L’ordinamento italiano, tuttavia, non ha dato luogo a vere e proprie forme di cogestione (cioè all’ingresso dei lavoratori negli organi direttivi delle aziende come, ad es., il Consiglio di amministrazione); in Italia non sono previste, come invece avviene in altri Paesi europei, forme di negoziazioni obbligatorie che impongano ai sindacati di mantenere la “pace sindacale” e agli imprenditori di non assumere decisioni prima delle trattative sindacali.
La partecipazione dei lavoratori, quindi, è limitata agli aspetti garantiti dai contratti collettivi nazionali che conferiscono alle organizzazioni sindacali i diritti di informazione e consultazione sui problemi delle singole imprese (livello di occupazione, stato finanziario, ambiente di lavoro…) e sulle prospettive economiche dei settori per i quali vengono firmati i contratti.
Ma perché...? L’Italia è un Paese dalle accese lotte sindacali e dagli scioperi frequenti: è un Paese nel quale i sindacati hanno un ruolo e una funzione di primo piano. Ma nell’esperienza italiana non si è radicata la prassi della cogestione: ciò significa da un lato che i ruoli dell’imprenditore e del sindacalista sono rimasti distinti, dall’altro che i rapporti prendono spesso la strada della conflittualità, soprattutto quando – come nel caso del pubblico impiego o delle grandi aziende – la presenza sindacale è rilevante. Molto è lasciato quindi ai singoli casi e alla capacità degli imprenditori e della dirigenza di coinvolgere i lavoratori, cosa che può avvenire in varie forme (partecipazione agli utili, benefit…), in modo da trasformare una potenziale conflittualità in un proficuo accordo.